giovedì 21 febbraio 2008

1000 euro al mese ai precari e un seggio al figlio di...

Non ho niente di specifico contro nomi che circolano in questi giorni sulla stampa e tra gli operatori sui giovani che occuperano il prestigioso ruolo di capolista del Pd nelle prossime politiche. Per principio preferisco dagli il benificio del dubbio che possano essere degni rappresentanti parlamentari e, perchè no, meritevole leader politici. Sono giovani e spesso carismatici e portano cognomi importanti e, soprattutto, riconoscibili. Ancora meglio se vogliono investire le proprie risorse.

Niente di nuovo. Ogni paese ha le sue dinastie politiche e economiche, ed è del tutto normale se un industriale o imprenditore desidera scomettere il proprio immagine e I propri risparmi per “prestarsi” alla politica. Mitt Romney, Al Gore, George Bush (x2), Riccardo Illy, Silvio Berlusconi e tanti altri. Si stima che oltre il 30% del congresso a stelle e striscia è composto da millionari (in dollari, ovviamente) .

Ma il sistema politica e sociale in America, per lo meno, li obbliga convincere l'elettorato che, nonostante tutto, sono “uno di loro”. E gli obbliga a sottoporsi ad estenuanti e frustranti primarie e campagne elettorali.

Il mio primo candidato "di successo" in America era conoscito soprattutto perché omonimo della grande catena di supermercati di famiglia (ha vinto allora, e dopo 18 anni è ancora uno dei Senatori più popolari dell'America).

Veltroni, con il rifiuto di De Mita e la proposta di un minimo di mille lire al mese per i tanti giovani laureati nel limbo del precariato sta cercando di trasmettere un immagine nuova, che rompe con l'Italia di sempre. Apparerebbe molto strano se poi scegliesse candidure simboliche che mandassero, nonostante l'età e le faccie fresche, un messaggio forte e contraditoria.

Ma non sono l'unico a esprimere perpelssità in una tale eventuale scelta: anche il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, a dovercelo ricordare: "Non possiamo avere un Paese in cui in campagna elettorale, nelle liste elettorali, ci siano tutti i 'figli di...'".


di Joshua Lawrence

We Can (Change our Slogan)

"Si può fare".
Non è che non funziona come slogan in sé, nel contesto delle primarie democratiche negli Stati Uniti (e probabilmente anche altrove), lo slogan è geniale. Racchiude in poche parole il messaggio principale e lo spirito della campagna di Obama. In un'America che cerca riscatto, "Yes we can" vibra come ritornello estivo.
È comprensibile, visto l'umore della base del centro sinistra in questo momento pre-elettorale, cercare qualcosa che dia energia ai propri militanti. In questo senso potrebbe essere utile, nel breve.
Ma è una scelta incompleta, o almeno così comincia ad apparire a tanti. Se lo nota anche uno come Alfonso Signorini (che si occupa di costume, non di comunicazione politica) nella sua trasmissione mattiniera su Radio Monte Carlo, lanciando un appello agli ascoltatori a mandare contributi migliori, dovrebbe cominciare a sembrare già vecchio agli strateghi del Pd.
Oltre ad essere un caso unico il fatto che uno dei principali partiti di una nazione europea adotti paro paro lo slogan da una campagna americana (una primaria in corso), è importante ricordare che, in Italia, il PD rappresenta la maggioranza uscente.
Obama, nella campagna americana, rappresenta lo sfidante, non l'uscente. Un messaggio di empowerment ha più senso. Ma, soprattutto, con lui il collegamento è diretto, non è mediato dall'immagine di altri. Quando lo usa Veltroni passa, necessariamente, per Obama.

giovedì 14 febbraio 2008

Maine 2008

Obama vince nel Maine


Cambia poco nel concreto, ma molto dal punto di vista simbolico.
Poco perché il Maine manda soltanto 24 degli 4.049 delegati al congresso democratico e perché il meccanismo di voto, il caucus (assemblee di simpatizzanti di un partito che si dichiarano pubblicamente per un candidato e poi si contano), gli consentirà di ottenere poco più della metà dei delegati nonostante l'ampio distacco in termini di punti percentuali.
Fa parte delle regole. Nel Nevada, sempre per i meccanismi e le regole locali del caucus, Obama ha preso un delegato in più nonostante avesse registrato meno consensi di Hillary Clinton.
Ma la vittoria di Obama nel Maine è stata importante perché, come nell'Iowa e con le vittorie schiaccianti in altri stati del "vecchio West" come Minnesota, North Dakota, Colorado e Idaho, dove è molto contenuta la quota dell'elettorato di colore o di altre minoranze, il "candidato nero" sfonda.
In una sua analisi Mino Fucillo ha descritto Obama come "...il complesso di colpa interiorizzato per il bushismo e la speranza di indistinti giorni migliori". Ma è una questione di senso di colpa o è il fatto che oramai, almeno in quelle parti degli Usa dove la popolazione nera è minoritaria, gli americani, o quantomeno l'elettorato democratico, quasi non ragiona più in termini di razza? In quell'America oramai abituata all'idea di un presidente nero o donna, grazie a popolarissime serie televisive come "24", la "carta razza" di Obama funziona proprio perché quasi non la usa.
Obama sa di non averne bisogno. Non ha bisogno di dimostrare che è nero, ma che potrebbe fare il presidente. D'altra parte, chi non lo voterebbe a causa del colore della sua pelle non voterebbe comunque un candidato presidente democratico.



Pubblicato prima in: http://www.agenziaelettorale.it/electionrace/maine.html